L’Uomo dei Sogni (1989)

L’Uomo dei Sogni (1989)

Non tutti sanno che Kevin Costner interpretava il vero protagonista de Il Grande Freddo, ovvero Alex, l’amico morto per cui vecchi amici di università si ritrovano assieme in un weekend di ricordi e riflessioni. Non tutti lo sanno, perché il regista tagliò integralmente la parte di Costner, eccezion fatta per una inquadratura (ovvero il polso della salma con i segni del suicidio).

Volendo quindi inserire questa partecipazione ne Il Grande Freddo (1983) e aggiungendola a Fandango (1985) e appunto L’Uomo dei Sogni (1989), Kevin Costner è l’interprete designato dal cinema USA ’80  per rappresentare i riti di passaggio maschili in una ideale trilogia. Se in Fandango il tema era la riconciliazione con quello che saremo (ed il trovare la propria strada) e ne Il Grande Freddo il tema era la riconciliazione con quello che siamo (e con il rapporto con chi ci sta vicino), l’Uomo dei Sogni rappresenta la conciliazione con quello che siamo stati (e quindi con le proprie scelte passate).

La trama de L’Uomo dei Sogni racconta di John Kinsella, un ex studente di Berkeley, ora contadino nell’Iowa, che un giorno sente una voce: “costruiscilo e lui tornerà”. Ascoltando i suoi sogni, John vivrà una straordinaria avventura: prima costruirà un campo da baseball, rischiando seriamente la bancarotta economica; poi misteriosamente appariranno dei giocatori di baseball degli anni ’20 (la mitica epopea dei vari Babe Ruth, Lou Gehrig, Ty Cobb…) ormai deceduti e misteriosamente riapparsi dalle distese di grano attorno per giocare su quel campo; successivamente, recluterà un grande scrittore degli anni ’60, ormai ritiratosi, e una promessa del baseball che poi diventò medico di famiglia; ed infine ritroverà suo padre (anche lui una volta promessa del baseball), deceduto prima che potesse riconciliarsi con lui dopo un pesante diverbio.

Questo film ha un potere evocativo straordinario, ed attinge in modo esemplare all’immaginario di tutto quello che è bello nella migliore visione dell’America (qualcuno potrebbe dire stereotipata? Non importa): lo sport, la famiglia, il pacifismo degli anni ’60, le seconde possibilità. Il messaggio che ci consegna questo film di Phil Alden Robinson è sul modo in cui viviamo la nostra vita: non sono i sogni che non abbiamo realizzato quello che ci rende infelici, che ci lascia rimpianti, ma l’amore che non siamo riusciti a dare nelle nostre scelte; ed il nostro tempo su questa terra è comunque limitato e va sfruttato. Non è vero che ti manca la tua giovinezza, piuttosto ti manca la sensazione che avevi quando eri giovane, di avere tutto il tempo del mondo, tutte le possibilità del mondo. Quando John si riconcilierà con il padre, avrà completato il suo ciclo di maturità, che non nega i sogni (indispensabili per non morire spiritualmente), ma li concilia con le proprie scelte, allineandole con i propri principi in modo consapevole.

La scena emblematica del film vede Archie Graham, che aveva rinunciato alla carriera nel baseball, ed aveva vissuto la sua vita come medico di famiglia, circondato dagli affetti della sua cittadina, e dall’amore della sua famiglia. Cosa sarebbe successo se avesse perseguito la sua carriera sportiva? Sarebbe stato più felice? Rinunciò ad un destino di grandezza? Richiamato anche lui dall’eternità, Archie giocherà con quei mostri sacri in quel campo magico, salvo scegliere ancora una volta (per salvare la vita di una bambina) di essere quello che era stato, un medico di campagna. Senza rimpianti.

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