Air: La Storia del Grande Salto – L’Epica dell’Avidità

Con Air: La Storia del Grande Salto, Ben Affleck torna alla regia dopo qualche anno in sordina. Ci aveva regalato dei grandi film ma sempre del genere thriller come Gone Baby Gone o Argo, stavolta un dramma che non definiremmo sportivo: stiamo parlando della più grande operazione di marketing della storia, ovvero la sponsorizzazione da parte dell’astro nascente del basket Michael Jordan (siamo nel 1984) da parte della Nike, al tempo un brand sportivo conosciuto, ma non il colosso che è adesso. Sarà proprio la nascita della linea Air Jordan ad iniziare un’ascesa inarrestabile del marchio con lo Swoosh. La storia è più che nota nel finale (a meno che non viviate su Marte e non abbiate mai visto un paio di scarpe da basket con la classica sagoma che salta a gambe aperte… sì, quello è Michael Jordan!), quindi occhio che ci sono degli spoiler (per modo di dire).

Curiosamente il giovane Michael non sarà mai mostrato se non di spalle, di fatto sono le figure di contorno della storia in questione a farla da padrone: Sonny Vaccaro (Matt Damon) talent scout dedito a cercare talenti da sponsorizzare e che punta tutto su uno di questi (e che scelta); Phil Knight (Ben Affleck) uno dei fondatori della Nike (e super tamarro!); Peter Moore, il designer della scarpa da basket più famosa del mondo; e soprattutto Deloris Jordan (Viola Davis, che ormai è la Meryl Streep nera del 21 secolo), madre del campione e negoziatrice implacabile.

Questo Air non è certamente un film che parla di basket, se ve lo state chiedendo; in realtà non parla praticamente neanche di sport, ma parla del mondo delle sponsorizzazioni agli albori (o quasi) negli sport professionistici che dopo questa vicissitudine decollano in modo astronomico, di fatto divenendo LA fonte principale del reddito degli atleti professionisti. Intendiamoci, il film è un’elegia del fare i soldi, estremamente ben fatta, ma più o meno come lo era The Social Network di David Fincher, anche appassionante, ma non troppo edificante, se non la fame assoluta che contraddistingue The American Way. Jordan (madre e figlio) non scelgono il brand per chissà quale motivo se non quello che lo pagava di più (auto inclusa), evviva. Casomai, è la storia (questa si, molto americana) di un impiegato (beh, di sicuro ben pagato) che rischia tutto su una scelta, convince un’intera azienda a scommettere con lui, e vince, vince alla grande. Alla fine, ci si appassiona, anche se il messaggio non è proprio così edificante (anche se a dirla tutta, la madre di Jordan aprirà tutta una serie di attività di beneficienza qualche anno dopo quegli eventi, quindi forse un lieto fine “poltically correct” alla fine c’è, piaga del cinema di Hollywood di questi tempi), ma ci si diverte, anche grazie alle tante punteggiature di commedia in quello che poi è un dramma “aziendale” commedia (un plauso a Chris Messina nella parte dell’avvocato di Michael Jordan, da sganasciarsi alcuni suoi interventi).

Atmosfere molto nostalgiche degli anni ’80, con pettinature e spallini improponibili… ma quanta energia, quante possibilità! Queste tonalità ci sono piaciute molto, la trama è strutturata benissimo, senza sbavature e lungaggini, scava bene nella mitologia del marketing di quel brand e le interpretazioni sono estremamente credibili, l’imbolsito (per motivi di scena) Matt Damon in primis, ma anche i vari Bateman, Affleck, Tucker e la suddetta Davis.

Ben Affleck in regia torna a schiacciare. VOTO: 7,5/10

 

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