8 Mile (2003)

8 Mile (2003)

Quando 8 Mile uscì sul grande schermo, molti pensarono al classico tentativo di elvisiana memoria (per tacere dei nostrani Gianni Morandi, Al Bano, Rita Pavone, Little Tony…) di lucrare commercialmente sul personaggio Eminem, rapper bianco che nel periodo in questione, faceva furore, conquistando pubblico e fette di mercato che fino ad allora non consideravano il rap (ovvero la disciplina musicale della cultura hip hop).

A sorpresa, invece, Curtis Hanson (regista  -bianco-  del raffinatissimo LA Confidential), dirige con grandissima attenzione, precisione, energia, intelligenza uno spaccato socio-culturale degli USA più proletari e depressi (Detroit) degli anni ’90, che per tanti versi è ancora attualissimo, tanto che 8 Mile può esser considerato (sissignore) per il decennio 1995-2005 l’equivalente de La Febbre Del Sabato Sera per la fine anni ’70-inizi ’80.

La trama racconta dei primi passi musicali di un giovane rapper bianco (B-Rabbit, interpretato da Eminem… ovvero Eminem interpreta se stesso!) nel circuito underground hip hop di Detroit, tra disoccupazione, periferie che sembrano uscite da un bombardamento e quartieri fatti di roulotte, famiglie disintegrate, problemi di alcol, rapporti affettivi disperati e violenti, basati su un’appartenenza quasi tribale e lealtà simili a vassallaggi  e “losers”, perdenti, il principale epiteto con cui ognuno  offende l’altro (per non riconoscerlo in se stessi).  Ipnotica la scena in cui B-Rabbit sul bus scrive un testo su un pezzo di carta, cuffie alle orecchie e vedendo scorrere il panorama… case abbandonate, chiese non ben identificate, negozi di armi, spacciatori agli angoli… Parafrasando un film di Michael Moore, non c’è molta differenza tra questa Detroit e la Baghdad che gli Americani si prefiggeranno di “salvare”.

8 mile è la strada statale che separa la Detroit più ricca da quella dei sobborghi  periferici, l’area indicata con 313, unico elemento di appartenenza e dunque di orgoglio  in cui si  identificano quelli che sono “fuori” dal sistema, e che passano i giorni a sognare come entrare “dentro”. Ognuno si battezza con un nickname, che sia B-Rabbit, Future, Sol, Papa Doc, perché il nome vero rappresenta una realtà da esorcizzare (ed infatti ogni volta che qualcuno lo cita, è come se mettesse a nudo l’altro, offendendolo).  Il Sogno Americano visto come qualcosa che esiste ma alla televisione: tanto è vero che , nella capitale dell’auto, B-Rabbit e gli altri del 313 girano con auto vecchie e scassate… producono qualcosa che qualcun altro avrà.

Una sola possibilità: trovare qualcosa che ti renda unico, che ti faccia vincere, e che ti permetta di uscire dal 313: musica, moda, sport… qualunque cosa. B-Rabbit sceglie il rap, supportato dal suo gruppo di amici (misto neri/bianchi), e sfida i neri sul loro campo. Dapprima lo deridono, poi si conquista il loro rispetto a furia di “battaglie” vinte sul campo, fatte di rime ritmate con cui due contendenti si demoliscono spiritualmente a vicenda su un palco, e ovunque.

Credibilissime le interpretazioni dei vari Eminem, Mekhi Phifer, Anthony Mackie, Michael Shannon e tutti gli altri rapper prestati allo schermo; e note di merito per le protagoniste femminili, molto valorizzate da Hanson, Brittany Murphy, attrice tragicamente scomparsa e qui al suo meglio, e soprattutto Kim Basinger, bellissima e bravissima come non mai.

Sono da manuale del cinema le ultime 3 battaglie in cui B-Rabbit sfida i 3 capi del gruppo avverso (“Free World”), e dove proclama una nuova appartenenza, una nuova razza, di quelli che “non hanno” rispetto a quelli che “hanno”, dove il colore della pelle non conta niente, né il credo, né le convinzioni politiche, né la loro provenienza. In queste battaglie, vere e proprie sublimazioni di scontri senza sangue, esplode un misto di energia e rabbia che diviene disciplina creativa e mentale coesa, dove i muscoli non contano, e dove chi vince, vince. E si merita il rispetto degli altri.

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