
Zero Dark Thirty – Anatomia di un Ossessione
Così come il Vietnam ha scolpito ed indirizzato il filone cinematografico di guerra USA degli anni 70 e degli anni 80, così, l’11 settembre e le guerre in Iraq e Afghanistan che ne conseguirono sono stati l’inevitabile follow up a quel filone dell’ultima decade.
Zero Dark Thirty, rappresenta il secondo contributo di Kathrin Bigelow al genere dopo The Hurt Locker premiato con l’Oscar nel 2008 e , con tutta probabilità ne è uno dei momenti conclusivi. Uno dei migliori?
Maya, di cui non sapremo mai il cognome ed interpretata da Jessica Chastain, è un’analista militare della CIA e viene immediatamente assegnata al rintracciamento dei capi di Al Qaeda nel 2001. Vivrà la fase iniziale della furia vendicatrice dell’amministrazione Bush, con torture, prigioni, operazioni anche affrettate, e poi l’apparente disinteresse della gestione Obama, fino a che nel 2011, riuscirà a rintracciare Osama Bin Laden e a condurre alla sua cattura da parte di un gruppo di Navy Seals, 10 anni esatti dall’assegnazione del compito che lei sola avrà perseguito costantemente ed ossessivamente in quel periodo, tra dimissioni, assassinii, trasferimenti dei vari colleghi.
Zero Dark Thirty ha il pregio di non spettacolarizzare eccessivamente quello che sarebbe potuto essere una storia di Rambo del 21 secolo, e di concentrarsi su tutto quel lavoro minuzioso, invisibile e spesso dimenticato che sta dietro alle operazioni sul campo; da questo punto di vista, la scelta di una donna, isolata già all’inizio, e sempre più sola nella sua ricerca, come centro di gravità della trama, appare molto interessante e dona un tocco di originalità ad uno svolgimento di per sé non particolarmente sostenuto nel ritmo (se non nella mezzora finale). L’introspezione psicologica diventa dunque il punto focale, con l’incrollabile fede di Maya, che di fatto le annulla dieci anni di vita… tanto che quando le chiederanno dove vuole tornare una volta che la missione sarà finita, non sarà in grado di rispondere, ma di sciogliersi in un pianto silenzioso.
Dicevamo dunque: uno dei migliori film sul post 11 settembre? Difficile dirlo. In generale, questo filone non ha prodotto quei capolavori che caratterizzavano la Guerra in Vietnam, da Apocalypse Now, a Full Metal Jacket, Platoon, Il Cacciatore… Così come altre produzioni della Bigelow, l’impatto visivo è notevole, e buonissima è la cura dei dettagli, quasi una vivisezione di un’ossessione individuale, ma la trama risulta essere alla fine ridondante. 2 ore e 37 in questo caso francamente eccessive, con una parte centrale spesso ripetitiva. Con l’eccezione della protagonista Jessica Chastain, davvero molto brava ed intensa, e di Mark Strong (che, sua cinematografia alla mano, sembra che voglia battere il record di presenzialismo in film negli ultimi due anni, quasi sempre in parti eticamente ambigue, se non proprio del cattivo), il resto del cast è ugualmente piatto e con volti troppo televisivi, istantaneamente dimenticabili… Kyle Chandler, Joel Edgerton, Jason Clarke, persino James Gandolfini “scompare” nonostante la mole.
In definitiva: si tratta di un buon film, ed ottimamente confezionato, ma è francamente sopravvalutato dalla critica (come, ci dispiace doverlo dire, tutta la cinematografia della Bigelow… probabilmente essere stata la ex moglie di James Cameron ha i suoi vantaggi), inferiore, ad esempio, ad un Redacted di Brian De Palma, del quale ne recupera qualche stilema documentaristico, e in tema di Guerra del Golfo (anche se pre-11 settembre) a Jarhead di Sam Mendes. Anche The Hurt Locker, sempre della Bigelow e a mio avviso sopravvalutato vincitore di un Oscar come Miglior Film, comunque rimane una pellicola migliore.
Si fa vedere, ma non si fa amare. VOTO: 7/10