Tre Manifesti a Ebbing, Missouri – Non è Un Paese per Signorine

Tre Manifesti a Ebbing, Missouri – Non è Un Paese per Signorine

Martin McDonagh, raffinato sceneggiatore anglo-irlandese e parsimonioso regista (questo è solo il suo terzo lungometraggio a quasi 48 anni suonati) ci regala questo spaccato di Profondo Sud USA: protagonista la cinquantenne Mildred, a cui hanno stuprato e ucciso la figlia ventenne, ma per la quale non c’è stata giustizia. Un’idea: affitta 3 cartelloni pubblicitari sulla strada con 3 semplici frasi: “stuprata mentre muore” “e ancora nessun arresto”, “come mai, Sceriffo Willoughby?”). inutile dire che l’interessato, lo sceriffo Willoughby in persona non la prende molto bene, cos’ come molta della popolazione di Ebbing, decisamente dalla sua parte, incluso uno dei suoi vice, il violento sempliciotto Dixon. In più, Willoughby è ammalato di cancro. Ma Mildred non mollerà: cerca giustizia.

Decisamente Coen-iano per ambientazione e tematiche, effettivamente Tre Manifesti ci ricorda una piacevole fusione tra Non è Un Paese per Vecchi e Fargo, non a caso la protagonista è proprio Frances McDormand, premio oscar per Fargo e moglie di Joel Coen:  con la cruenza di alcune scene si mescola lo stile da black comedy di un Paese di RedNecks (campagnoli del sud) dall’animo semplice , ma dalla scorza durissima, in un paesaggio tranquillo e cupo allo stesso tempo come in un quadro di Edward Hopper. Ed è difficile quasi da subito schierarsi con qualcuno:se infatti almeno all’inizio sembra facile prendere le parti della Mildred proletaria e divorziata contro il Sistema, già a metà Willoughby non sembra proprio il tipico prepotente che ci aspetteremmo, e la stessa Mildred, indurita oltre ogni modo dalla vita, non sembra proprio esente da colpe. Tanto che, alla fine, in un quasi colpo di scena, troverà il più inaspettato degli alleati. Perché comunque tutti sono nati e cresciuti nello stesso posto, e tutti rispondono alle stesse regole del gioco.

Film decisamente sorprendente per il tono e per l’assoluta imprevedibilità della scrittura veramente poco hollywoodiana (e molto da West End londinese, nello stile del regista), probabilmente è un film che non potrà piacere a tutti per il tono decisamente sopra le righe e la violenza piuttosto esplicita (a livello del miglior Tarantino), ma che secondo noi davvero vale la pena. Tante le interpretazioni da citare oltre alla McDormand; e se Woody Harrelson non ci sorprende più di tanto per la sua versatilità, ci piace sottolineare la performance di Sam Rockwell nella parte dello zoticone Dixon, più complesso e sfaccettato di quanto ci saremmo mai immaginati. Del resto da Moon a Confessioni di Una Mente Pericolosa, Rockwell è uno di quegli attori mai pienamente sfruttati da Hollwood, un po’ tipo Willem Dafoe o Greg Kinnear (e non a caso sono tutti attori che amano interpretare parti ambigue). Brevi e intense le apparizioni di Peter Dinklage (il brevilineo protagonista de il Trono di Spade) e di Caleb Landry Jones. 

Finale enigmatico ed aperto, e consolatorio a modo suo. Sorprendente. VOTO: 8/10

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