The Master – il Culto del Business

The Master – il Culto del Business

È sempre stato un mistero come mai il culto di Scientology non fosse mai stato preso in considerazione per una pellicola, anche se la presenza all’interno di essa di figure molto potenti ad Hollywood (come ad esempio Tom Cruise e, fino a poco tempo fa, John Travolta) è probabilmente stato un forte deterrente. Non a caso, ci ha pensato un vero e proprio cane sciolto come Paul Thomas Anderson (che peraltro aveva dato allo stesso Cruise una delle sue migliori interpretazioni di sempre in Magnolia) a darne una versione –anche se con nomi diversi- con The Master, ripercorrendone i primi passi dal 1950 in poi, dallo status di movimento elitario-intellettuale  fino al passaggio a movimento di massa.

In realtà lo scopo di Anderson non è tanto quello di narrare un trattato su cosa sia Scientology, sulle effettive basi su cui poggia il Culto (come viene chiamato all’interno del film), quanto di capire le motivazioni che hanno spinto molti individui verso le idee di uno scrittore di fantascienza (L. Ron Hubbard, nel film il personaggio di Lancaster Dodd, interpretato da Philip Seymour Hoffman), evolutosi in psicoterapeuta autodidatta, poi in patriarca di una setta inizialmente diffusa localmente, poi a livello  mondiale.

Lo fa attraverso gli occhi di Freddy Quell (Joaquin Phoenix), veterano traumatizzato della Seconda Guerra Mondiale: alcolizzato, ossessionato dal sesso, passa di lavoro in lavoro, finché incontra Lancaster Dodd, che lo prenderà sotto la sua ala protettrice fino a farne un seguace. I due sviluppano un rapporto quasi padre-figlio, con la moglie di Dodd (una superba Amy Adams, glaciale e pragmatica first lady) a completare il trio familiare. Quello che in realtà colpisce della visione di Anderson, è che il Culto si sviluppa consapevolmente (con forse l’eccezione dello stesso Dodd) nella piena consapevolezza di quanto siano vuote e incoerenti le idee del fondatore, ma siano di fatto sostenute dai seguaci né più né meno come fossero un business, un’azienda intenta a reclutare e fidelizzare clienti sui propri prodotti (libri, sedute “terapeutiche”, eventi…). Allo stesso modo, Freddy non si comporta come un fedele, ma piuttosto come un figliol prodigo che vive in un lungo sogno, intervallato da momenti di lucidità (dove, di fatto, tende a scappare) e sostanzialmente plagiato, ma consapevole allo stesso modo in cui lo sono i suoi Maestri. Crede ciecamente senza capire veramente. In un certo senso, rappresenta quell’America (non a caso il primo post-Conflitto Mondiale, periodo di sbandamento collettivo dopo un unità di intenti naturale come quello di vincere una Guerra), disposta a credere a tutto, pur di appartenere a qualcosa. Non che la storia non sia ciclica, o si tratti di situazioni limitate agli Stati Uniti: in periodi di crisi, emergono i Leader del Domani. Positivi o negativi che siano, Leader; e moltitudini che desiderano essere guidate fuori dall’incertezza.

The Master può vantare recitazioni di livello straordinario, con un Phoenix emaciato e in bilico tra l’oblio e la rabbia, ed un Hoffman magnetico, bugiardo e dal sorriso accogliente come una tagliola. Quello che invece non convince è la trama: il film rimane sempre a metà tra il raccontare la storia di uno sbandato e le origini di un Movimento, ma senza approfondire nessuno dei due in modo soddisfacente. Lo sviluppo della narrazione appare casuale, più una sequenza di scene che effettivamente qualcosa di organico. Ce ne sono di alcune molto interessanti (la scena finale tra Dodd e Quell, o quelle di esperimenti nelle case di alcuni seguaci), con dialoghi altrettanto significativi, ma complessivamente anche molte che lasciano perplessi (le domande che suscitano: e questo cosa significa? Perché mi viene detto questo?). Per tanti versi, The Master ricorda il Petroliere (ultima fatica di P.T. Anderson), con una terra dove religione e business hanno confini labili, personaggi carismatici, epopee legate a momenti storici passati; ma a differenza dell’altro, fallisce nel creare una narrazione coerente. Con una domanda spontanea che sorge alla fine: e quindi? VOTO: 6,5/10

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