The Fabelmans – Spielberg e il suo Amarcord
In genere si dice che ogni regista ha 2 storie da raccontare: quella che governa la sua giovinezza e quella che chiude la sua maturità.
Steven Spielberg ha raccontato come pochi quell’America a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80, un immaginario fatto di grandi case, spazi infiniti, colazioni a base di bacon e succo d’arancia, bambini con le All Star ai piedi e adulti con le felpe delle Università, e un ottimismo che per noi Europei è stato la quintessenza a stelle e strisce in opposizione alla seriosa e plumbea Europa. Intendiamoci, non solo quello, è un regista che comunque si è evoluto molto nel corso degli anni anche discostandosi dai suoi modelli iniziali, ma ora a tre quarti di secolo suonati, arriva la famosa seconda storia di cui sopra, e questo The Fabelmans vuole proprio racccontare l’inizio della sua avventura dietro la cinepresa, quello che una volta di sarebbe definita una narrazione di formazione: e ci racconta di Sammy, che si innamora del cinema andando a vedere un film di Cecil B. DeMille Il Più grande Spettacolo Del Mondo e uno scontro di treni che diventa il suo primo soggetto cinematografico; e della sua famiglia, il padre (Paul Dano) ingegnere e informatico geniale che lo porta dall’Est all’Ovest degli USA, della madre (una Michelle Williams particolarmente ispirata) artista mancata, instabile e amorevole, delle sue 3 sorelle che sono anche le sue prime attrici, dello zio attore e artista circense che per primo lo avvisa di dove lo porteranno le sue scelte. E ci racconta di questo ragazzino ebreo (l’esordiente o quasi Gabriel LaBelle, peraltro davvero somigliante!) che conquista il suo posto al sole in una California di surfisti biondi e statuari con il suo potere di ridisegnare il mondo attraverso una cinepresa.
The Fabelmans un po’ come è stato Amarcord per Fellini o I 400 Colpi per Truffaut, e soprattutto Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore, ma in modo ancora più diretto (lo stesso Spielberg dichiara che il 99% di quello che succede nel film è realmente successo) è a tutti gli effetti un’autobiografia, raccontato con quello stile magari non così autoriale, ma immediatamente accessibile senza essere banale che caratterizza Spielberg. Con tante chicche, ad esempio la prima versione di Salvate il Soldato Ryan girata coi Boy Scout, e l’illuminante incontro con John Ford (peraltro, interpretato da David Lynch!) che gli dà la sua prima lezione di stile visivo (ed è un finale ironico e potente allo stesso tempo). Ci è parso un film molto sincero e, supponiamo, in alcune parti piuttosto dolorose per il regista (soprattutto il rapporto con la madre); il suo grande pregio è quello di incantarci con la straordinarietà di una storia normale, con la sua vita fatta di piccoli e grandi trionfi, e di inaspettati eventi che la rendono unica, degna di essere raccontata. Senza alieni, senza grandi avventurieri, senza effetti speciali, ma che ti incolla allo schermo. Come sempre, quello che è la cifra di Spielberg non sta nel dialogo, ma nel potere dell’immagine (e della musica, anche qui composta -per l’ultima volta, almeno così ha dichiarato, dal mitico John Williams) che diventa iconica: e ce n’è una su tutte che siamo sicuri diventerà LA citazione del film: il giovane Sammy che proietta una pellicola sulle sue mani giunte assieme per improvvisare un minischermo, ma anche presagio di quale destino sia previsto per lui. Il film termina quando Spielberg inizierà ad essere Spielberg, ma questo non è un film celebrativo, vuole raccontare cosa lo ha portato ad essere quello che diventerà.
“Il coraggio della vita è spesso uno spettacolo meno drammatico del coraggio di un momento finale, ma non è meno un magnifico miscuglio di trionfo e tragedia.” J.F. Kennedy
VOTO: 7,5/10