
Synecdoche, New York – La Vita Vista Da Dietro Le Quinte
Gli scrittori scrivono per se stessi? gli attori recitano per se stessi? i registi dirigono per se stessi? Esiste un’arte fine a se stessa dove l’autore è il principale fruitore e gli altri sono spettatori dell’autore stesso?
Domanda a cui Charlie Kaufman, celebrato e originale sceneggiatore (suoi Se Mi Lasci Ti Cancello – titolo italiano da denuncia penale – Confessioni di Una Mente Pericolosa e Essere John Malkovich) cerca di dare una risposta sia all’interno del film, sia come scelta narrativa. Se la cosa vi può sembrare non chiara, infatti non lo è: Synecdoche, New York, il cui titolo (fusione di Shenectady, dove si svolge l’inizio del film, e la forma retorica Sineddoche) è già ermetico, non è un film semplice.
Caden Cotard, regista di provincia, viene abbandonato dalla moglie, che si trasferisce a Berlino con la figlia; vince però un importante vitalizio per meriti artistici, che gli darà la possibilità di mettere in piedi uno spettacolo che durerà tutta la vita, ricreando la sua vita in una Shenectady in miniatura (seppure enorme, ed ecco il riferimento alla Sineddoche di cui sopra) all’interno di un magazzino: vi recitano tutte le persone della propria vita (sulla base dei suoi input) e alla fine sostituirà anche se stesso, per poi infine prendere lui stesso un ruolo completamente diverso.
Valeva davvero la pena recuperare al cinema un film del 2008 come questo, o si è trattato di un’operazione “commerciale” (ed il termine è assolutamente inappropriato per questo film, vi assicuriamo) per sfruttare la performance di uno dei migliori attori degli ultimi vent’anni, Philip Seymour Hoffman, e scomparso quest’anno? Difficile essere definitivi, ma probabilmente questo secondo aspetto ha influito molto: si tratta di un film dallo sviluppo spesso incomprensibile, con un inizio più realistico e una seconda parte dove, attraverso l’espediente della malattia (degli occhi) avvenimenti, cronologia, elementi visivi (vedi la casa in fiamme di Hazel) trascendono la verosimiglianza con la realtà, quasi fosse un “realismo magico” di Marqueziana memoria. Peraltro, nota di merito per un cast femminile assolutamente stellare (Catherine Keener nella parte della moglie, Samantha Morton nell’eterna amante Hazel, e poi Jennifer Jason Leigh, Emily Watson, Hope Davis…).
In qualche modo, Synecdoche, New York esemplifica il perché non tutti gli sceneggiatori diventino registi: il film si presenta come un luna park di intuizioni e filoni narrativi, dove evidentemente Kaufman ha dato sfogo a tutta la sua fantasia (e qui ci sono idee degne del miglior David Lynch), ma in un modo che alla fine risulta poco organico rispetto alla narrazione stessa. E, sebbene sia bella l’idea di come possa essere irresistibile crearsi un mondo parallelo dove tutto va come lo desideri; nonostante alcuni dialoghi davvero notevoli che risuonano profondi e amarognoli (e qui è il marchio di fabbrica di Kaufman); ebbene, il prodotto finale risulta parecchio cerebrale e indigesto, laddove manca quasi una sintesi complessiva, che evidentemente è il lavoro del regista. E, potenziale inespresso a parte, qui non ci siamo, sorry.