
Joker – Ridi Pagliaccio, Ma C’è Poco Da Ridere
Certo che scegliere Todd Philips, regista fino ad oggi solo di commedie tipo Una Notte da Leoni e Parto Col Folle, per dirigere il dramma della contraddizione vivente (un pagliaccio/giullare maniaco ed omicida) che è il nemico più iconico di Batman, deve essere stata una scommessa che è sembrata “destino” ai produttori (e “follia” ai critici). Risultato? Leone d’Oro a Venezia, primo cinefumetto premiato ad un festival “serio”. Già ci sarebbe da aprire un dibattito su questo.
E’ un film di origini, il secondo spin off del Batman-Universo, dopo l’incredibilmente brutto Catwoman di una quindicina di anni fa; ed è un film che potremmo dire racconta una storia apocrifa, visto che l’avversario del Cavaliere Oscuro non solo ha delle origini diverse nel fumetto, ma in realtà questo è un film che, come è stato detto più e più volte, non solo non appartiene all’Universo Cinematico ufficiale della DC (quello di Justice League e WonderWoman per intenderci, dove attualmente il detentore del titolo è Jared Leto), ma neanche alla meravigliosa trilogia di Nolan, dove il Joker ebbe le fattezze di Heath Ledger (premio Oscar peraltro). Confusi? Del resto la strategia cinematografica della DC lo è (rispetto all’architettura pluriennale e ad incastro dei rivali della Marvel), e forse è un bene per questo film.
Arthur Fleck, aspirante comico e pagliaccio da strada nella vita reale; con disturbi mentali che lo fanno ridere nei momenti meno opportuni; che vive nella sudicia Gotham City con la madre, anch’essa affetta da qualche forma di disturbo mentale, con la quale guarda quotidianamente il suo talk show preferito, sognando di essere lui stesso invitato un giorno. Maltrattato, emarginato, disperato, con un desiderio paradossale nella sua situazione: far ridere gli altri per farsi amare. Un giorno, dovrà difendersi nel modo più estremo che possa immaginarsi, e da li in poi è una discesa, ma anche una rinascita.
Philips ha sempre negato si trattasse di un film politico, ma forse gioca alle tre carte con i critici e lo spettatore, perché lo è. Vero che la performance di Joaquin Phoenix è magistrale, decisamente il pezzo forte del film (e sembra un Oscar facile facile, e sarebbe già il secondo Joker premiato): irriconoscibile fisicamente (ha perso 25 kg per interpretare Arthur/Joker), con una performance credibilissima e difficilissima: senza anticipare niente, il film a volte racconta la realtà e a volte il delirio di una mente malata; ma Phoenix è straordinario nel travalicare i limiti, un po’ come lo fu Christian Bale – ironia della sorte, il miglior Batman di tutti i tempi – ne L’Uomo Senza Sonno. La sua risata malata è terribile ed una pugnalata al cuore. Inutile dire che se Joker si porterà a casa qualche statuetta, sappiamo di chi sarà il merito (ed il suo ballo sulla scalinata del Bronx è già luogo di “culto” su GoogleMaps, googlare per credere). La domandona: meglio Phoenix o Ledger? Pari e patta, secondo noi.
E il film? Molto buono, non un capolavoro come Il Cavaliere Oscuro però. Ci sarebbe piaciuto qualche affondo in più in The Killing Joke, la storia a fumetti più iconica del Joker degli anni ’80, a cui questo film deve molto: stesso mood, stessa ambientazione, che avviene più o meno nella New York dei primi anni ’80, con la sua delinquenza e sporcizia dilagante. Non a caso, il “modello” nel film di Arthur è Murray Franklin, interpretato da Robert DeNiro, al quale questo film deve due sue interpretazioni chiave: il mitologico Taxi Driver (1976) e l’iconico Re Per Una Notte (1982), di cui questo Joker ne sembra una sintesi aggiornata e adattata alla storia. Film politico, secondo noi sì, magari non schierato, ma politico sì: Arthur Fleck in un mondo politicamente ormai privo di riferimenti positivi, rappresenta l’alba dei movimenti populisti che è tematica attuale. Non dei movimenti di protesta (alla Occupy Wall Street, o quelli ecologici, che sono sostanzialmente ideologici), ma proprio di quei movimenti con a capo dei leader che non guidano verso un mondo ideale migliore (qualunque sia questo ideale), ma si limitano a soddisfare la “pancia” della massa, che alla fine non può che essere un declino sociale. Comici a capo di partiti, leader col parrucchino colorato, mi direte voi… Mica siamo in un fumetto.
Con un monito, il messaggio di un grande presidente USA degli anni ’60, oggi sempre più profetico: “Una nazione libera che non può aiutare quelli che hanno poco, non può salvare quelli che hanno molto”. VOTO: 7,5/10