
Nebraska – Sembra Proprio un Paese per Vecchi
Alexander Payne è un regista che ha sempre avuto come tematica quello della maturità (maschile) e cosa questo comporti, il passaggio generazionale ed i rapporti con i propri padri in particolare è sempre stato un tema che emerge spesso. In effetti, Nebraska, stavolta con la novità assoluta di un bianco e nero polveroso come il Midwest Americano che ci immaginiamo noi europei, sembra prendere in prestito molti dei temi affrontati in A Proposito di Schmidt, Sideways e Paradiso Amaro e che hanno proprio in comune questo senso dello scorrere dell’esistenza e di come certi eventi finiscano con l’imprimere un’inevitabile accelerazione nella nostra vita, quasi che fosse impossibile per noi non rincorrere il tempo perduto.
Woody (Bruce Dern) è un anziano meccanico in pensione, un pò sordo, un pò affetto da Alzheimer, e un pò semplicemente e volutamente indifferente a ciò che lo circonda. Suo figlio David (Will Forte) decide di accompagnarlo nel suo natio Nebraska per riscuotere un (famigerato) premio; qui ritroverá amici e parenti che non vedeva da vent’anni. Si sparge la voce che sta per diventare milionario e, visto che tutto il mondo è paese, arrivano molti avvoltoi nella speranza di ottenerne qualcosa…
Commedia estremamente amara, come è nella cifra stilistica di Payne, e fatta sostanzialmente di dialoghi asciutti ed immagini scarne ma efficaci, dove il territorio del Midwest, dagli spazi ampi piatti e con un cielo perennemente nuvoloso, Nebraska rende bene l’idea di una monotonia di fondo, di definitivamente provvisorio in mancanza di meglio.
Cosi come è ricorrente in Payne (e se vogliamo in tutta la tradizione letteraria e cinematografica on-the-road a stelle e strisce) l’idea di un viaggio fatto per scoprire l’altro e attraverso questi, se stessi. Qui sono padre e figlio, baby boomer reduce dalla Corea l’uno, Generazione X tipicamente indefinito lavorativamente e sentimentalmente l’altro; emergono bene i valori contrastanti tra i due, con il figlio che interroga il padre (ma in definitiva se stesso) delle sue scelte, consapevoli o meno. Quando gli viene chiesto se avesse mai voluto una fattoria come suo padre, Woody risponde “non ricordo, comunque non era importante“. Quante volte ci troviamo a chiedere ai nostri padri del perchè facciano quello che facciano senza una risposta che ci suoni aliena?
Belli i volti scelti dal regista per rappresentare quest’angolo di un Paese, questo sì per vecchi con buona pace di Cormac McCarthy, dagli occhi grandi, i solchi nel viso; e i maglioni sformati, le donne che sembrano uomini, i ritrovi davanti alla televisone, l’obesità dilagante… Bravissimo Bruce Dern, con i suoi occhi guizzanti ed il suo passato irrisolto quasi fosse stato vissuto da qualcun altro, e fantastico il personaggio di mamma Kate (June Squibb, che aveva già interpretato la moglie del protagonista in A Proposito di Schmidt), cattolica che ha di qualcosa di malvagio da dire su tutti, salvo ovviamente pensare che siano delle buone persone, che Dio le abbia in gloria.
Film che, dopo che ci ha fatto ridere di questi Americani di campagna, ci lascia qualcosa di amaro in bocca alla fine. E la domanda finale, che forse a tutti sovviene prima o poi: cosa lascerò di me a chi verrà dopo di me? Passare il tempo a capire cosa rimarrà dopo che di tempo non ce ne sarà più. Sarà David a risolvere la questione, regalando qualcosa al padre. Perchè, In fin dei conti, come dice un proverbio dei Nativi Americani, spesso ignorato dai loro conquistatori bianchi: “non ereditiamo niente dai nostri padri, ma prendiamo in prestito dai nostri figli“. VOTO: 7,5/10