Mi chiamava Valerio (2014)

Mi chiamava Valerio (2014)

Pellicola liberamente ispirata alla vita di una promessa del ciclismo degli anni eroici, ovvero gli anni 40 e 50, Mi Chiamava Valerio e’ una produzione indipendente dei registi Igor Biddau e Patrizio Bonciani, che in effetti prende spunto da eventi reali, ma più come pretesto per rappresentare un’età irripetibile nella storia italiana.

Valeriano Falsini è un venditore ambulante delle campagne toscane che, per necessità o virtù, si scopre essere un asso delle due ruote… vince molte gare a livello locale e viene adocchiato dai professionisti. Il suo sogno sembra realizzarsi quando viene chiamato niente poco di meno che da Fausto Coppi (che lo chiamava Valerio perché così “è più veloce”), che lo vuole come suo gregario, ma proprio mentre sembra l’inizio di una carriera luminosa, una decisione affrettata mina le sue condizioni fisiche in modo definitivo. La sua esperienza tra i giganti delle due ruote a 80.000 lire al mese termina dopo un anno.

Opera che innesta il mestiere di attori professionisti (tra cui Roberto Caccavo nella parte di Coppi) su un tessuto di volti amatoriali e locali (il che non vuol dire necessariamente di basso livello, il protagonista Riccardo Sati, per intenderci, regge benissimo ed in modo credibile la parte di Valeriano) Mi Chiamava Valerio è costruito su una sceneggiatura molto evocativa ma forse un po’ discontinua; il film però si avvale di una fotografia sorprendentemente buona anche rispetto a produzioni del cinema mainstream italiano, e risolve in modo anche brillante la mancanza di mezzi. La scelta di impoverire i colori, eccezion fatta per il rosso (di Schindleriana memoria, non casualmente omaggiata nel finale “realistico”), virando al seppia di quando in quando, conferisce al film il mood di quegli anni, e allo stesso modo ne evidenzia il distacco rispetto ai sogni, che si sovrappongono alla realtà quando Valeriano è sulla sua bici. Bella la scelta di stringere sui bei volti scavati e toscani appena possibile.

Menzione speciale per la musica di Stefano Rossi:  interessantissimi i commenti al pianoforte (che possono, solo in prima battuta, ricordare Piovani), e molto bella la sinfonia che accompagna l’eroico e sciagurato giro della Toscana; in qualche modo la cifra comune dello score di Rossi è un senso di sospeso  e di potenziale che ben valorizza lo spirito di tutto il film.

La grossa sfida del film non è la celebrazione dell’ennesimo quarto d’ira di celebrità preconizzato da Andy Warhol, ma di raccontare in modo essenziale e senza retorica i privilegi della giovinezza, quel momento in cui l’onda si alza e tutto l’universo sembra piegarsi a quello che vuoi. Il che vale doppio anche e soprattutto in un momento difficile come fu quello del dopoguerra:  i sogni come rivalsa e riscatto, e scommessa su un futuro migliore.

Il sogno è in qualche modo il leit motiv del film, sia visto come una visione verso cui puntare e pagarne il prezzo, ma anche come elemento di rielaborazione e  rilettura della realtà: ne troviamo spesso, utilizzati per raccontare l’animo di Valeriano, sia in stile leggero e cartoonesco, sia simbolico e drammatico (forse il picco dell’opera di Biddau: una corsa al contrario contro il tempo che passa e sotto una pioggia battente e implacabile… vero e proprio presagio schopenhaueriano di qualcosa che sta per finire, l’onda che si frantuma per ritornare alla quiete iniziale).

In definitiva, Mi Chiamava Valerio rappresenta un prodotto indipendente ottimo, ambizioso ma non pretenzioso, e che, nonostante i risultati qui più che buoni, lascia presagire un potenziale ancora inesplorato nelle capacità narrative del regista. Da vedere anche se non siete appassionati di ciclismo, sport e dopoguerra:  un film di tematiche universali.

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