Fury – La Guerra Non Finisce Mai

La Guerra non finisce mai tranquillamente” è il payoff di questo film di David Ayer e, senza voler anticipare niente, in qualche modo racchiude tutta la storia dell’equipaggio di un Carro Armato, soprannominato appunto “Fury” che avanza nella Germania ormai alla fine della Resistenza, ma non per questo meno pericolosa. I nemici sono le SS, ma anche una Wehrmacht ormai ridotta ad arruolare donne e bambini.

L’equipaggio è composta dal sergente Collier (B. Pitt) e i suoi 4 soldati, un fanatico religioso (S. Lebouef), un immigrato messicano (M. Pena) , un bifolco della Georgia (J. Bernthal) e un dattilografo sbattuto in prima linea (L. Lerman) , essendo ormai anche l’esercito USA allo stremo (come si lascia sfuggire qualcuno all’inzio guardando un campo militare “difficile credere che stiamo vincendo”). Il Fury avanzerà, e avanzerà, e avanzerà per fare spazio alle truppe dietro, contro tutto e tutti, fino a rimanere isolato dal resto dell’esercito.

Fury, da un punto di vista della trama e dello sviluppo, appare un film di guerra nella tradizione più classica del cinema USA, diciamo quello che va dalla metà degli anni ’80 in poi, quello non platinato alla John Wayne per intendersi, ma quello fangoso, lurido e sporco (in ogni senso), che deve più le sue radici al filone del Vietnam (Platoon, Apocalypse Now, Full Metal Jacket), una guerra subito ripudiata anche dagli Americani Stessi, piuttosto che alla Seconda Guerra Mondiale, che ha sempre goduto di uno status di “guerra giusta nonostante tutto” (ed in effetti, se l’Oscurità del Nazi-Fascismo fu sconfitta, fu principalmente, anche se non esclusivamente, merito degli USA).

L’originalità del film, risiede nella famiglia che si forma all’interno del Fury, vera e propria casa su cingoli, con tutte le dinamiche tipiche del patriarca (Collier) che guida, educa, premia, punisce e viene sfidato dal resto del team, dove addirittura si può ritrovare la figura della madre (Il soldato “Bibbia”, che lo affianca e si distacca dagli altri per molti versi)  e i figli, quello ribelle e scapestrato (Grady), quello docile ed inquadrato (Gordo), e quello giovane ed inesperto (Norman). Più che le scene di combattimento, alcune delle quali davvero spettacolari e mozzafiato, come la sfida tra i 3 Sherman USA e il Tiger Nazista, o l’avanzamento nel primo  paese o lo scontro finale col plotone SS, Fury trova però i suoi punti più alti in momenti più intimi: Collier che si apparta un secondo dal resto del team per mettersi la testa nelle mani dalla disperazione in ginocchio, la cena a base di uova con le ragazze tedesche, o l’attesa dell’ultimo scontro all’interno del tank.

Pur privo della poetica di altri film di guerra (ci viene in mente La Sottile Linea Rossa, di molto superiore a questo, ma anche Salvate il Sodato Ryan e Flags of our Fathers, qui decisamente più in linea come modello di rappresentazione), Fury è alla resa dei conti un buon film, nobilitato da una fotografia ottima (splendida l’inquadratura finale del Fury, una specie di masso che divide le acque di un fiume fatto di fango, persone e cadaveri), musiche molto azzeccate e interpretazioni molto valide, Brad Pitt in testa, ma anche gli altri.

Il Finale è emblematico e come dicevamo, è ben rappresentato dal payoff del film: Collier sceglierà comunque il combattimento, anche in una situazione disperata, apparentemente per difendere la posizione, ma in realtà in assenza di una reale alternativa alla Vita di Guerra, che ormai ha scavato dentro di lui un abisso, nobile e terribile allo stesso tempo, e senza speranza. Come disse un altro famoso film di guerra: “la prima vittima è l’innocenza”… anche se il culmine del combattimento, l’ultimo incontro di Norman con un soldato SS, sarà decisamente sorprendente: la guerra ci fa credere di essere diversi, e ci fa dimenticare che l’unica cosa che conta quando sei giovane è vivere, ed essere vivo. VOTO: 7/10

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