
Collateral (2004)
Se Spike Lee è il cantore di New York, e Ben Affleck la voce di Boston, Michael Mann (regista raffinato, ma spesso troppo algido) ci regala uno strepitoso affresco notturno di Los Angeles con Collateral, che al pari de la 25° ora o Inside Man o Gone Baby Gone per le rispettive città, sarà probabilmente ricordato come il miglior ritratto della multietnica metropoli californiana del primo decennio del ventunesimo secolo.
È sempre curioso come questi ritratti di città USA, a differenza di quanto possa capitare in Europa (la Roma di Moretti, la Milano di Salvatores, la Madrid di Almodovar, la Berlino di Wenders…), siano straordinariamente vividi quando narrano di polizieschi, o comunque storie di delinquenza. Chissà se si tratta di un processo di stereotipizzazione da snob europei, per cui USA=violenza, ma l’occhio con cui questi registi studiano l’universo delle megalopoli USA di fatto incartandole in thriller è assolutamente sublime.
In particolare, Collateral narra della incredibile nottata del taxista Max (Jamie Foxx) che viene, inizialmente a sua insaputa, ingaggiato dal killer Vincent (Tom Cruise) per un insolito tour notturno di LA: Vincent deve infatti uccidere 5 persone prima delle 6 del mattino. Quando un attonito Max scopre la verità (che gli precipiterà sul parabrezza del taxi), Vincent di fatto lo rapisce e lo costringe ad accompagnarlo in giro per la città… le periferie dei Latinos, un jazz club di neri, una discoteca piena di cinesi, la downtown dei professionisti. Con uno dei lieti fini più amari della storia del cinema.
Dietro un thriller insolito e tuttavia tesissimo, Mann racconta di questa città (o forse gli USA, o forse tutto il mondo) e di come la maggior parte delle persone ci viva la propria vita: da una parte i predatori, quelli che attaccano, quelli concentrati sulla propria vita ed obiettivi fino a schiacciare quella degli altri; dall’altra quelli che si rifugiano nei sogni, facendo altro, fino a che tutto il tempo a loro disposizione è passato. Vincent (il nome non è un caso) e Max non potrebbero essere più diversi: l’uno, argentato come un lupo, sociopatico e lucido analizzatore dei comportamenti umani, spietato, letale, bellissimo e spaventoso allo stesso tempo; l’altro, nero, riservato, a modo suo un perfezionista, ma che passa la vita in un mondo di bugie per non guardare in faccia alla realtà e si adatta per non essere sbranato (da Vincent, dal capo, dagli scippatori, dai poliziotti… i predatori). La sfida tra i due, nel breve senza speranza, avrà nel lungo termine un finale filosoficamente darwiniano… come subdolamente anticipa il regista all’inizio del film.
E dietro questa sfida, una Los Angeles notturna e lisergica, luci che si stagliano al buio di una città disconnessa come i suoi abitanti… A differenza della NY di Spike Lee (dove tutti sono connessi, quasi compressi, tra di loro), LA è 6 milioni di individui che vivono e muoiono separati da autostrade, mentali più che fisiche, isole in un arcipelago che raramente permette il contatto umano. Una città dove in giro non trovi pedoni, ma un coyote, in una scena assolutamente magica dove Vincent lo guarda incuriosito quasi fosse un suo simile, con la voce di Chris Cornell a commentarla musicalmente.
E questo ci porta all’ultima nota positiva di questo straordinario film, ovvero la colonna sonora: ottimo lo score di James Newton Howard, ma vale il prezzo del biglietto da solo il soundtrack, che va dal jazz all’hip hop, dall’ambient alla house, dal R&B al rock e al latinoamericano in un raffinatissimo viaggio musicale… da ascoltare mentre si attraversano le proprie notti.
Ipnotico.