
Autofocus (2002)
Paul Schrader, regista del mitico American Gigolo, film icona degli anni’80 (quanti uomini hanno imparato a far la valigia studiando la pragmatica meticolosità di Richard Gere?), ci regala un’altra perla di stile nel 2002, raccontandoci la morbosa storia di Bob Crane (Greg Kinnear) protagonista negli anni ’60 di una sitcom di successo (nota anche in Italia), che insieme all’amico John Carpenter (nessuna relazione col più noto ed omonimo regista), sfrutta la sua popolarità per portarsi a letto centinaia di donne e, visto che c’è, riprendersi mentre lo fa. Il film è una vera e propria discesa all’inferno: per perseguire questa sua dipendenza, perderà la reputazione, la famiglia, la carriera, tutto… Con finale tragico e quasi inesorabile.
Il film rappresenta da un punto di vista visivo un eccellente affresco del periodo, con colori vividi, saturi che ben raffigurano i colorati, lisergici anni Sessanta ed inizio degli anni Settanta. Davvero notevole il contrasto di quelle immagini legate nell’immaginario collettivo con praticelli verdi, bambini sorridenti, cani che corrono e buoni sentimenti con le tematiche scabrose e prive di ogni consolazione finale. Per tanti versi, fa il paio con un film dello stesso anno, Lontano dal Paradiso, che anche qui, sotto i colori intensi e il mondo luminoso e pulito degli anni d’oro del Sogno Americano, affronta tematiche tabù come l’omosessualità e i rapporti interraziali, lì con delicatezza e non-detto degno di un quadro di Hopper, qui affondando a piene mani nel fango in cui il protagonista finisce per sprofondare. Non a caso, quando Autofocus esce nel 2002 provoca ben più di un prurito nella distribuzione USA, favorendone il divieto ai minori (e in definitiva l’affossamento). Molte scene abbastanza esplicite, ma in particolare è un passaggio dove Bob sogna di essere osservato “in azione” dalla sua famiglia (bambini inclusi) e dai suoi colleghi che sicuramente sollevò qualche sopracciglio. Scena peraltro che rappresenta ottimamente l’ossessione morbosa del protagonista, fervente cattolico sposato con l’ex fidanzata del liceo di giorno, cacciatore di sesso la notte. Il piacere di Bob non è tanto nell’atto di per sé (quasi ridotto a esercizio meccanico) quanto riguardare se stesso in fotografia o video mentre lo fa, da cui il titolo, sintesi perfetta del film, Autofocus, grazie a Dio non stravolto nella traduzione italiana. Perché al di là della scabrosità del tema, è proprio l’egocentrismo estremo che trasforma in distruzione cioè che tocca e in autodistruzione cioè che ottiene.
Ottimi i due protagonisti, che interpretano due parti coraggiose da un punto di vista del contenuto: e, sebbene per Willem Dafoe questa sia una scelta ricorrente (vedi L’Ultima Tentazione di Cristo, ma solo per citarne uno), per Kinnear questo film, ricco di nudi integrali (anche se mai frontali), di fatto ne segna una svolta a livello carrieristico. Si sa che Hollywood è piuttosto bacchettona al riguardo, ed infatti l’attore statunitense imbocca con questa parte una strada di produzione “indie” piuttosto che mainstream, che negli anni ’90 era sembrata ben adattarsi al faccino del buon Greg, con film decisamente meno controversi. Da segnalarne il Life Coach deluso in Little Miss Sunshine, e il ritratto a chiaroscuri del Presidente Kennedy nella omonima saga televisiva.
Quello che rimane impresso alla fine è lo straordinario contrasto tra la luminosità posticcia della realtà come la vogliamo e le tinte cupe dell’animo umano come è. Una rappresentazione quanto mai significativa della decadenza della cultura occidentale, perché come risponde Bob al suo agente, preoccupato della reputazione del suo protetto: “ lo so che il sesso non è la risposta… E’ la domanda. E la risposta è “sì!””