American Pastoral – Requiem di Un Sogno, Parte Seconda

American Pastoral – Requiem di Un Sogno, Parte Seconda

Regia d’esordio a 45 anni per Ewan McGregor, che Per l’occasione sceglie di trarre un film dal celeberrimo libro di Philip Roth, Premio Pulitzer 1998, che, a dire il vero, aveva una sceneggiatura pronta da quasi dieci anni, ma che, per motivi inspiegabili non era mai riuscita ad essere prodotta.

Intendiamoci, il libro era ostico come nella miglior tradizione di Roth, e con questo siamo al settimo film basato sui suoi libri (ed il suo capolavoro, Il Lamento di Portnoy, è stato portato da noi con il vergognoso titolo Se Non Faccio Quello, Non Mi Diverto (sic, 1972; siamo nel periodo dei titoli pruriginosi). Ma sono titoli ostici per tutti  i giusti motivi. Non sempre i film sono riusciti a coglierne lo spirito (un esempio su tutti: La Macchia Umana del 2003, col peggior Hopkins a memoria d’uomo).

Ma vediamo il film: Seymour Levov, detto lo Svedese, di famiglia ebraica di Newark, ingegnoso, puro, determinato ed americano fino al midollo ha tutto quello che può desiderare un uomo americano. Un bel lavoro a capo della sua fabbrica di guanti, una moglie bellissima e devota (e perdipiù cattolica, una shikseh come viene definita da non-ebrei,”segno che lo Svedese ce l’aveva fatta”), una splendida casa ed una figlia adorabile, Merry, che ha un unico neo: è balbuziente.

Purtroppo per lui non sarà l’unico neo: nel fervente 1968, proprio Merry sarà coinvolta in un atto di protesta violenta e sarà costretta alla clandestinità. Da lì in poi, tutta la vita dello Svedese sarà dedicata a ritrovare la figlia perduta, e la sua perfetta vita familiare sarà sconvolta per sempre.

Libro ostico dicevamo e, con tutta la buona volontà, non possiamo dire che McGregor sia riuscito a farne un bel film. Di certo abbastanza riuscite le ambientazioni, ma il film appare fin troppo bidimensionale, con un personaggio che rappresenta un ideale americano che si scontra con le miserie di un Sogno infranto irrimediabilmente: nel sociale, con le rivolte che rendono la sua cittadina zona di guerra; e nel familiare, con moglie e figlia che celano segreti indicibili per la morale ufficiale. Tematiche e atmosfere che, in qualche modo, ci ricordano Requiem Per Un Sogno di Aronofsky (2000), ma in tono minore.

Non si tratta di un problema di fedeltà al libro, anzi lo è, nel bene e nel male; laddove, forse si sarebbe potuto tagliare qualcosa a beneficio della storia (l’apertura e la chiusura con lo scrittore che riceve la storia dello Svedese da parte del fratello di lui, ad esempio, qui sono assolutamente superflue), McGregor non lo ha fatto, con una regia rigorosa, ma abbastanza povera alla fine.

Non aiutano le interpretazioni. Si salva McGregor, che di certo non era lo Svedese che Roth aveva in mente, ma alla fine risulta passabile. Diversamente le donne della storia: una Jennifer Connelly che, per quanto bella, dimostra tutti i suoi limiti attoriali (curiosità: era nel suddetto Requiem per Un Sogno); ed una Dakota Fanning che, dopo i fasti della carriera da bimba prodigio (era ne La Guerra dei Mondi e Man On Fire qualche anno fa), qui non sembra per niente credibile.  

Non ce ne voglia il buon McGregor, uno dei più apprezzati attori della sua generazione che di strada ne ha fatta dalla sua esplosione in Trainspotting (1996, venti anni fa esatti) e che ce lo renderà sempre caro, ma forse non è la regia la sua strada. Requiem di una Regia. VOTO:5,5/10

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